(L'economista James Tobin) |
“To throw some sand in the well greased
wheels of international finance”, ovvero “gettare un po’ di sabbia negli
ingranaggi ben oliati della finanza internazionale”. Questa la soluzione che il prof. James Tobin propose
durante la sua prolusione all’Università di Princeton nel 1972, a pochi mesi
dal crollo degli accordi di Bretton Woods che prevedevano un sistema valutario
internazionale a cambi fissi (gold-dollar standard). Già, perché a leggere i
commenti che compaiono sul web, e sui principali quotidiani
economico-finanziari, sembrerebbe che in pochissimi sappiano, o ricordino, che
il premio Nobel per l’economia auspicava l’introduzione della tassa solo ed
esclusivamente sui movimenti internazionali di capitali a breve termine che
implicavano operazioni, e quindi oscillazioni, sui tassi di cambio. L’esigenza
dell'epoca era quella di rendere meno traumatico il passaggio ad un sistema di cambi
fluttuanti che, secondo le convinzioni di allora, avrebbe potuto rendere
vulnerabili i singoli sistemi economici nazionali, con importanti implicazioni
anche nella sfera dell’economia reale. L’obiettivo della Tobin tax era dunque
quello di attenuare l’erraticità dei tassi di cambio, onde evitare che le
autorità monetarie fossero costrette a far leva sui tassi d’interesse per
arginare la speculazione valutaria e, nello stesso tempo, per contrastare le
ripercussioni distorsive che avrebbero dovuto verificarsi sul commercio
internazionale. La tassa che invece l’attuale governo si propone di introdurre con
il ddl di stabilità, assieme ad altri Paesi europei, non è altro che una
semplice imposta di bollo sulla compravendita di valori mobiliari (azioni,
obbligazioni, derivati, e altri), meglio qualificabile come Financial
Transaction Tax, cioè come vera e propria tassa su ogni singola operazione di
acquisto e di vendita effettuata sui mercati finanziari (ad eccezione di quelle
transazioni che riguardano i Titoli di Stato). Quindi questo provvedimento del
Governo non ha nulla a che vedere con quello ideato dall’economista
statunitense, nonostante i mass media si ostinino ad utilizzare il termine
Tobin Tax quando fanno riferimento ad esso.
Del resto questa doverosa premessa assume una valenza squisitamente
accademica, e ciò che più importa, alla fin fine, è cercare di valutare quali
potrebbero essere le conseguenze di natura pratica che deriverebbero
dall’applicazione di questo tributo.
Cosa dice il
disegno di legge
Cominceremo col dire che la misura del balzello, secondo la bozza del ddl
di stabilità per il 2013, come si evince dai commi 18, 19 e 20 dell’Art. 12
(Disposizioni in materia di entrate), dovrebbe attestarsi allo 0,05% del
controvalore di ogni singola operazione avente per oggetto un qualsiasi valore
mobiliare negoziabile sulle Borse valori fatta eccezione, come anticipato in
precedenza, per i Titoli di Stato. Questo il contenuto del ddl:
A partire dalle operazioni concluse dal 1° gennaio
2013, la compravendita di azioni e altri strumenti finanziari partecipativi
emessi da società residenti nel territorio dello Stato è soggetta a imposta di
bollo con l’aliquota dello 0,05% sul valore della transazione. L’imposta è dovuta anche se la compravendita avviene al di fuori del
territorio dello Stato, sempre che una delle controparti sia residente nel
territorio dello stesso.
Secondo il
disegno di legge viene cioè introdotta un’imposta sulle compravendite
finanziarie ovunque effettuate (anche all’estero) da soggetti residenti ai fini
fiscali in Italia. La nuova disposizione afferma che l’imposta è dovuta anche
se la compravendita avviene al di fuori del territorio dello Stato, sempre che
una delle controparti sia residente nel territorio dello stesso.
Anche le operazioni su strumenti finanziari derivati di cui all’art.1 co.3 del DLgs.58/98 (c.d. Tuf), diverse da quelle su titoli di Stato di Paesi appartenenti all’Unione europea e aderenti all’accordo sullo Spazio economico europeo che consentono un adeguato scambio di informazioni (ossia Norvegia e Islanda), in cui una delle controparti sia residente in Italia, sono soggette, al momento della conclusione, a imposta di bollo con l’aliquota dello 0,05%. sul valore nozionale di riferimento del contratto.
I paesi non
aderenti
Da tale progetto hanno preso subito le distanze alcuni paesi europei, tra i
quali non poteva non figurare la Gran
Bretagna, che rappresenta uno tra i più importanti centri di
negoziazione a livello mondiale soprattutto per ciò che concerne i derivati
finanziari. Assieme ad essa l’Olanda,
il Lussemburgo e la Svezia. In questi paesi dunque non si
pagherà la tassa sulle transazioni finanziarie, a differenza degli altri dieci paesi che si sono pronunciati favorevoli
assieme all’Italia: Francia, Germania,
Belgio, Portogallo, Slovenia, Austria, Grecia, Spagna, Estonia e Slovacchia.
Il punto di
vista del trader
Chi come noi pratica, o comunque ha un po’ di dimestichezza, con l’attività
di trading comprenderà immediatamente quanto disastroso potrebbe essere
l’impatto di una simile imposta su tale attività, peraltro già sottoposta a
tassazione da capital gain cresciuta, proprio a partire da quest’anno, dal
12,5% al 20%. Se per coloro che effettuano il trading azionario di posizione
l’entità del danno potrebbe anche, per certi versi, essere ritenuta accettabile,
non potrebbe dirsi altrettanto per l’attività di trading intraday e per quella
di scalping, peraltro già messe a durissima prova negli ultimi anni
dall’introduzione degli HFT (High Frequency Trading). Una singola operazione
dovrebbe infatti generare un gain minimo grosso modo uguale o superiore al mezzo punto percentuale
per poter essere considerata profittevole (considerando anche le commissioni di
negoziazione da corrispondere al broker e il capital gain). Per quel che
riguarda invece i derivati l’operatività diventerebbe decisamente improponibile
considerando il fatto che l’imposta stessa verrebbe calcolata non sul valore a
margine ma bensì sul controvalore totale del sottostante il contratto
(cosiddetto valore nozionale). Proviamo a fare un esempio numerico per
comprendere meglio: movimentando un contratto future con un margine di garanzia
di diecimila euro che ha come sottostante l’indice Ftse Mib al valore, poniamo,
di 15000 punti, avremo un valore nozionale di 75000 euro (5 euro a punto). Su
tale valore verrà calcolata l’imposta di bollo dello 0,05% al momento dell’apertura
della posizione, e un altro 0,05% al momento di chiusura della stessa, per un
totale che andrebbe ad aggirarsi attorno ai 75 euro complessivi, oltre ai dieci euro di commissioni che normalmente si corrispondono al broker. Una singola operazione sul future italiano verrebbe a costare, agli attuali valori, circa 100 euro, vanificando di fatto ogni intento di profitto nel brevissimo termine. Ancora peggio
per le opzioni (strumenti che ci stanno particolarmente a cuore), che hanno fatto fatica a svilupparsi in questi anni
sul mercato italiano, e che comunque hanno continuato a presentare problemi
legati agli spread denaro-lettera fin troppo larghi. Su questi strumenti diventerebbe impossibile implementare qualsiasi tipo di strategia (di hedging o di trading)
già difficoltosa oggi, poiché il margine di profitto teorico verrebbe
fortemente eroso, e in alcuni casi completamente annullato, dall’introduzione dell'odiosa tassa.
Dal comma 18 del ddl emerge peraltro un particolare assai importante, sul
quale è stata fatta confusione nei commenti sul web. Leggendo il testo della bozza sembra
infatti che l’applicazione della tassa non colpirà solo il mercato di
riferimento, quanto piuttosto il soggetto che opera sullo stesso. Il che sta a
significare che un trader italiano che pensasse di spostare la propria attività
su un mercato estero sarebbe comunque tenuto a versare il balzello. Da ciò si
evince anche l’eventualità di una forte asimmetria fra trader di nazionalità
diverse, che vedrebbe un operatore americano o londinese “avvantaggiato” nella
propria attività rispetto ad un collega di un paese europeo. In altre parole, una
vera e propria discriminazione degli investitori su base territoriale.
Il punto di
vista dei dealer (banche, fondi d’investimento, fondi pensione, hedge fund,
ecc.)
I dealer, cioè tutti quegli operatori istituzionali che vengono normalmente
individuati con il termine “mani forti”, non avrebbero alcun tipo di problema a
spostare la propria attività in quei paesi dove la tassa non verrà applicata.
Sarebbe infatti sufficiente creare un’apposita società con sede legale e
operativa all’estero per far venir meno i presupposti soggettivo e territoriale
ed eludere così il balzello. La tassa andrebbe di conseguenza a colpire i
soliti noti, cioè i piccoli investitori privati, mentre provocherebbe nel
contempo un enorme spostamento di capitali verso le piazze finanziarie
fiscalmente più competitive con conseguenze negative anche dal punto di vista
occupazionale.
Il punto di
vista dei broker (SIM e banche di negoziazione)
Gli intermediari delle negoziazioni, cioè tutti quegli operatori che vanno
dalle principali banche alle SIM online che offrono la possibilità di
effettuare le transazioni facendosi pagare una commissione, vedrebbero calare
drasticamente i volumi intermediati, con conseguenze disastrose sui margini di
profitto. Essi sarebbero costretti dunque ad elevare i costi di
negoziazione proprio per sopperire al calo degli utili e per tentare di
sopravvivere sul mercato. Il trader accuserebbe di conseguenza un ulteriore
costo indiretto, che deriverebbe da commissioni mediamente più alte, e che
andrebbe a rendere ancora più problematiche le condizioni operative. Molti
intermediari come quelle piccole SIM e broker online, che hanno come core
business l’intermediazione, sparirebbero probabilmente dal mercato favorendo lo
spostamento dei capitali presso le grandi banche. Anche in questo caso si
avrebbero risvolti negativi dal punto di vista occupazionale.
Il problema
degli HFT (High Frequency Trading)
Gli HFT sono sistemi automatici di trading gestiti da potenti software che
generano milioni di ordini giornalieri speculando sui minimi movimenti di
prezzo. Il profitto di tali operazioni verrebbe completamente
neutralizzato, e passerebbe addirittura in negativo, con l’applicazione della
tassa. Proprio per questo motivo sarebbe tolta ad essi ogni possibilità
lucrativa, non essendo più conveniente speculare sul tick minimo di qualsiasi
valore mobiliare e derivato. Gli operatori di mercato che utilizzano questi
sistemi non farebbero altro che applicarli su quei mercati fiscalmente più
competitivi, spostando dunque i propri capitali e l’operatività su altre piazze,
esattamente come nel caso del dealer. In questo modo verrebbe sottratta un’enorme
liquidità ai mercati, tenendo conto che questi software generano più della metà
delle contrattazioni giornaliere. Non staremo qui a disquisire sull’opportunità
e la correttezza nell’utilizzo di tali sistemi e sugli eventuali effetti
distorsivi provocati nelle negoziazioni, e nel processo di formazione dei
prezzi, sui quali si potrebbe discutere a lungo.
Il punto di
vista del fisco
E’ stato calcolato che l’applicazione della tassa sulle transazioni
finanziarie dovrebbe generare un introito per l’erario approssimativamente
vicino ai 55 miliardi di euro, un miliardo e circa cento milioni di euro solo
per l’Italia. Pare superfluo osservare che, proprio per le motivazioni spiegate
in precedenza, e cioè a causa dello spostamento di capitali, dell’uscita dal
mercato di operatori privati e piccoli intermediari, si avrebbe un crollo nel
volume delle negoziazioni e di conseguenza un gettito fiscale notevolmente
inferiore rispetto a quello pronosticato. Del resto la precedente esperienza negativa
della Svezia, che introdusse in passato la tassa, è piuttosto emblematica a tal
riguardo. Il paese scandinavo revocò il provvedimento pochi mesi dopo la sua
introduzione, proprio a causa di un drastico calo nell’attività di trading che
comportò un risultato fiscale deludente. La stessa Francia, che ha cominciato
ad applicare il provvedimento da qualche mese, sta già sperimentando sulla
propria pelle l’inutilità del balzello.
Alcune
considerazioni di ordine tecnico
Dal punto di vista strettamente tecnico c’è un’altra considerazione da
effettuare. Gli operatori di mercato, soprattutto i trader professionali che
lavorano alle dipendenze degli istituzionali, saranno portati a rendere
implicita la tassa nelle stesse proposte di negoziazione. Tenderanno cioè a
posizionarsi su livelli di prezzo più elevati in caso di vendita (proposte di
negoziazione in lettera - ask) e su livelli di prezzo più contenuti in caso di
acquisto (proposte di negoziazione in denaro - bid), in maniera tale da
scaricare la tassa stessa sulla controparte. Questa sorta di “tecnica” di scambio
implicherebbe un notevole allargamento dello spread denaro-lettera sui book di
negoziazione, soprattutto sui derivati, che unitamente al drastico calo di
liquidità e alla scarsa presenza di capitali andrebbe a compromettere
seriamente le possibilità di compravendita a prezzi congrui aumentando di fatto
la volatilità dei corsi e quindi il rischio, e facendo nel contempo venire meno
la stessa funzione informativa del prezzo.
Conclusioni:
nessun vantaggio, solo danni per tutti.
Il settore del trading online sta già vivendo un momento particolarmente
difficile legato al contesto macroeconomico generale, che vede le
contrattazioni assottigliarsi di giorno in giorno a causa della scarsità di
capitali disponibili per il trading. L’introduzione di una tassa sulle
negoziazioni andrebbe ad infliggere un durissimo colpo a questa attività, già
di per sè molto difficile, stressante, rischiosa e dispendiosa in termini di
tempo ed energie per tutti coloro che la praticano. D’altro canto i grossi
operatori istituzionali non sarebbero neanche sfiorati da un provvedimento di
questo tipo, mentre i broker di piccole dimensioni vedrebbero seriamente
compromesse le già difficili possibilità di sopravvivenza sul mercato. I
risvolti occupazionali sarebbero dunque chiaramente negativi, mentre il
vantaggio per le casse dell’erario sarebbe da considerare trascurabile
considerando che il gettito potenziale verrebbe distratto dallo spostamento dei
capitali verso altre piazze. I prezzi delle attività finanziarie inoltre diventerebbero
molto volatili in mercati asfittici e privi di liquidità, accrescendo notevolmente
il rischio stesso.
In teoria
il provvedimento potrebbe avere efficacia solo se applicato a livello globale
da tutte le piazze finanziarie, ma anche se gli Stati Uniti e l’Europa, Gran
Bretagna compresa, dovessero accordarsi in questo senso, sarebbe veramente
difficile pensare che a tale accordo aderiscano anche piazze finanziarie come Svizzera,
Singapore, Kuala Lumpur, e tante altre.
Quindi, di fatto, l'applicazione della Financial Transaction Tax, o Tobin Tax, o comunque la si voglia chiamare, è un esercizio puramente accademico e impossibile da realizzare sul piano pratico, tanto che lo stesso James Tobin si pronunciò in questo senso alcuni anni dopo la sua prolusione a Princeton, facendo autocritica. L'introduzione della tassa andrebbe peraltro ad incentivare proprio quell'attività che l'economista statunitense si proponeva di contrastare con il suo provvedimento: i movimenti internazionali di capitali. Un vero e proprio paradosso!
E’ davvero difficile credere che illustri professori e dottori, che in
passato hanno ricoperto prestigiosi ruoli accademici nell’ambito universitario e
importanti cariche istituzionali nell’industria della finanza internazionale, che
rappresentano ancora oggi importanti punti di riferimento per think tank sovranazionali,
e che in questi mesi hanno l’onere e l’onore di governarci, non riescano ad
effettuare queste banalissime considerazioni da studente di scuola media
superiore.
© dott. Pier Paolo Soldaini - Riproduzione riservata.
© dott. Pier Paolo Soldaini - Riproduzione riservata.
Complimenti per articolo, ma non ha trattato il punto chiave. L'imposta sarà applicata come in Francia (esentando il trading intraday) o no?
RispondiEliminaGrazie
Il problema non si pone. Il testo del ddl di stabilità parla genericamente di compravendita senza specificare se l'operazione è chiusa o meno in giornata. Quindi non vi è alcun motivo di pensare che le operazioni intraday siano esenti dall'imposta.
RispondiEliminaGrazie per la risposta. Quindi Lei ritiene che la Tobin tax italiana abbia diversa applicazione rispetto a quella già presente in Francia che colpisce solo i titoli azionari con una capitalizzazione di borsa superiore al miliardo di euro e solo in caso di mantenimento delle posizioni overnight?
RispondiEliminaLeggendo il testo della bozza del ddl i criteri di applicazione appaiono ben diversi da quelli francesi. Ovviamente il ddl è suscettibile, come sempre, di emendamenti che potrebbero modificarlo anche in maniera consistente andando a specificare nel dettaglio i termini di applicazione.
RispondiEliminaMa perchè dite queste baggianate.
RispondiEliminaPer fortuna non tutti credono a queste favoline.
windserf
Quali sarebbero le baggianate e le favoline? Può dettagliarcele? E' sicuro di aver compreso il contenuto dell'articolo?
RispondiEliminaPer quanto riguarda l'applicabilità della tasso se si opera su un mercato estero, come negli USA, l'art. 18 sembra un po controverso.
RispondiEliminaInizialmente si parla di società emittenti residenti in Italia, nel seguito si dice che la tassa si applica anche per transazioni estere a patto che una della due controparti sia residente in Italia: secondo me questo sta a significare che se un cittadino svizzero opera su un titolo quotato in italia su una società non avente Residenza in italia non paga la tassa....magari mi sbaglio ma mi sembra davvero improponibile che una Piazza straniera debba subire un calo delle transazioni perchè in europa mettono questa tassa. Questa è la mia modesta interpretazione
Mi sembra che lei stia facendo un po' troppa confusione. Provi a rileggere il testo del ddl, e vedrà che non è così.
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