IL downgrade sull’Italia arrivato ieri da Moody’s non è altro che la cronaca di un fatto annunciato. La più nota delle agenzie di rating aveva infatti sospeso il giudizio sul nostro Paese circa un paio di settimane fa, il 20 settembre, proprio in occasione del downgrade arrivato da Standard & Poor’s. Le motivazioni a supporto di questa decisione non sono certamente una novità: la debolezza strutturale del sistema Italia, provocata principalmente da un mercato del lavoro troppo rigido e da una bassa produttività; la sostanziale impossibilità di raggiungere un accordo riguardo le politiche di bilancio per ridurre il deficit; lo sfondo delle problematiche legate all’Eurozona. La risposta da parte dei mercati finanziari di stamani peraltro è stata chiara: nessun ulteriore calo di fiducia nei confronti dell’Italia. IL mercato azionario ha infatti aperto in rialzo, mentre lo spread BTP-Bund si è lievemente apprezzato tornando sopra quota 380 punti base. Teniamo sempre ben presente che l’Italia è in realtà uno dei pochi paesi che ha retto molto meglio di tanti altri la crisi economico-finanziaria cominciata nel 2008, vuoi per il particolare tessuto produttivo (mi riferisco alla piccola e media impresa), vuoi per un più elevato grado di solidità del sistema bancario (poco esposto sui debiti sovrani a rischio default), vuoi per una diversa struttura del suo stesso debito pubblico. Non dimentichiamo inoltre che, a fronte di un rapporto piuttosto elevato debito pubblico/PIL (pari a oltre il 120%), il rapporto deficit/PIL dell’Italia è tra i migliori in Europa. Detto questo, sia chiaro, non si intende assolvere la classe politica italiana dalle proprie responsabilità e dalle scelte errate che sono state fatte, soprattutto in occasione dell’ultima manovra finanziaria, e che hanno offerto il pretesto per tutto quanto sta accadendo in queste ultime ore. L’Italia è un paese bloccato, e la classe politica, tutta quanta, a prescindere da destra e sinistra, non ha la capacità (o piuttosto la volontà) di affrontare e risolvere radicalmente determinati problemi. Primo fra tutti quello dell’elevato grado di burocratizzazione del paese, che tarpa le ali a tutti coloro che avrebbero la propensione ad intraprendere. Secondo, ma non per importanza, l’elevato grado di inefficienza dell’amministrazione pubblica e del parastato, che serve solo a creare e mantenere un serbatoio di consenso funzionale sia alla sinistra che alla destra. Entrambi i problemi si ricollegano direttamente a quello della pressione fiscale, che non è altro che una semplice conseguenza degli stessi. Di questi problemi se ne sente parlare ormai da vent’anni , o forse più. Dunque se non c’è nulla di nuovo sotto il sole del Bel Paese perché questo ulteriore downgrade? Teniamo conto che, come abbiamo già avuto modo di rilevare in un precedente articolo, negli ultimi mesi di contrattazione parecchi titoli del listino italiano non arrivano a capitalizzare in borsa neanche i mezzi propri, quotando una frazione irrisoria del cosiddetto book value. Questo significa che alcune realtà industriali italiane, soprattutto bancarie ed assicurative, potrebbero rappresentare in questo momento un boccone succulento per tentativi di scalate esterne a prezzi di saldo. La formulazione di questi giudizi negativi sul sistema Italia potrebbe dunque ricollegarsi a scopi ben diversi e più profondi della semplice speculazione. Le stesse agenzie di rating si trovano, sotto questo aspetto, in una posizione assai dubbia se la si guarda dal punto di vista della composizione del loro capitale sociale, che afferisce, direttamente o indirettamente, alla loro proprietà. Prendiamo proprio Moody’s come esempio, dato che forse è la più nota e la più nominata tra le agenzie, e chiediamoci da chi è controllata, cioè come è composto il suo azionariato. Bene. Con oltre il 13% del capitale spicca il fondo Berkshire Hathaway che fa capo a un certo Sig. Warren Buffett. Poi abbiamo Fidelity, uno dei più grandi gestori di fondi a livello mondiale, con oltre il 10% dell’azionariato. E così via, passando attraverso le partecipazioni di BlackRock, Morgan Stanley Investor, e altri gestori di fondi. E se passiamo ad analizzare l’azionariato di Fitch o di Standard & Poor’s che cosa troviamo? Sempre Fidelity, BlackRock, e gli stessi Signori di prima. Tutti gestori di professione. Ma come mai coloro che dovrebbero emettere delle valutazioni con un certo grado di obiettività su aziende, fondi, strumenti finanziari, e sistemi paese, sono gli stessi che operano comprando e vendendo quegli stessi strumenti, oggetto di valutazione, nelle proprie attività di gestione? E’ lecito porsi questo dubbio?
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