A distanza di dodici giorni dalla catastrofe giapponese i principali media e gli opinionisti plaudono all’intervento congiunto delle autorità monetarie per contenere il naturale apprezzamento dello yen, e continuano a ripetere, come un disco rotto, che questa sarà una grande opportunità per far ripartire l’economia del Sol levante. Cerchiamo di capire perché non sarà così.
Partiamo dai danni.
Sono circa ventitremila le persone morte e disperse nella catastrofe, oltre trecentomila gli sfollati. Le cifre ufficiali riguardo i danni provocati dal disastro sono state stimate in oltre 300 miliardi di dollari, cifra che non comprende gli eventuali danni che deriveranno da black out programmati, che impatteranno negativamente sulle attività produttive, e gli eventuali peggioramenti alla centrale di Fukushima. Ci si domanda allora come sia possibile effettuare una valutazione precisa considerando che sono state spazzate via intere città e paesi, e che sono state danneggiate infrastrutture di ogni tipo, tra edifici, abitazioni, strade, ferrovie, ponti, porti, acquedotti, reti elettriche, siti d’interesse storico-artistico, che richiederanno anni per essere ripristinate efficacemente. L’industria nucleare, che produceva circa un terzo del fabbisogno energetico nazionale, si avvia al tramonto. Le principali raffinerie di petrolio hanno arrestato la propria attività perché semidistrutte o comunque gravemente danneggiate. Le principali imprese nipponiche, tra le quali i colossi Nissan, Toyota, Honda, Subaru e Sony, hanno sospeso la produzione per diversi giorni creando degli enormi buchi nell’output. L’impatto di tutto questo sul prodotto interno lordo a nostro avviso andrà ben oltre le stime del 6%. Queste cifre fanno impallidire il precedente disastro di Kobe di sedici anni fa: allora ci furono circa 6500 morti, danni per circa cento miliardi di dollari, e un impatto sul PIL del 2,5%.
La ricostruzione
Nei prossimi anni (e saranno molti) la gran parte delle risorse del Giappone dovrà essere dedicata alla ricostruzione. Considerando che esse (le risorse) saranno parecchio scarse, il paese avrà necessità di IMPORTARE, e di importare soprattutto materie prime ed energia (quindi petrolio e derivati) per coprire il gap di fabbisogno post-nucleare. Teniamo ben presente questo concetto: il Giappone avrà bisogno in futuro di importare risorse molto più di prima.
La situazione finanziaria
IL disavanzo (deficit) del Giappone si attesta a oltre il 9% del PIL, mentre lo stock di debito pubblico (debito pregresso) supera il 200% del prodotto interno lordo. Aggiungiamo anche una “piccola” nota: il Giappone è il terzo detentore mondiale, dopo la Fed e la Cina, del debito pubblico americano con circa 900 miliardi di dollari investiti in Titoli di Stato USA.
Dopo lo tsunami un’altra inondazione: quella di yen.
In questo tragico scenario l’autorità monetaria nipponica, di fronte al crollo del Nikkei e al contestuale apprezzamento dello yen (che aveva guadagnato circa quattro figure sul dollaro tra il 16 e il 17 marzo) non ha saputo fare di meglio che intraprendere una politica molto in voga negli ultimi tempi. A molti piace denominarla Quantitative Easing, noi preferiamo chiamarla, più tradizionalmente, politica monetaria espansiva. Un mare di yen iniettati nel sistema: 15 triliardi (l’equivalente di circa 180 miliardi di dollari). L’intervento è proseguito nei sei giorni successivi con altre iniezioni di liquidità. E non solo. Nella notte tra il 17 e il 18 marzo, in una riunione d’urgenza in videoconferenza, i paesi del G7 hanno deciso di intervenire congiuntamente, per la prima volta negli ultimi dieci anni, attraverso le proprie Banche Centrali per sostenere questa scelta. Un fatto senza precedenti in un regime di cambi flessibili. La giustificazione è stata la seguente: assicurare stabilità ai mercati finanziari; bloccare la speculazione sullo yen; ma soprattutto, difendere le ESPORTAZIONI ! In un momento in cui le risorse, in particolare quelle energetiche, sono scarse e dovranno essere dedicate alla ricostruzione, in un momento in cui si dovrà importare molto di più rispetto al passato, si pensa a difendere le esportazioni ?!? In un momento in cui la produzione giocoforza diminuirà drasticamente (e quindi si abbasserà l’offerta di beni e servizi, mentre aumenterà la domanda), in un momento in cui per il popolo giapponese sarà di vitale importanza risparmiare, si inietta liquidità nel sistema ?!?
La soluzione (apparentemente) più logica
Di fronte a questo quadro, la soluzione apparentemente più logica avrebbe potuto essere la seguente: cogliere l’occasione per disinvestire almeno un terzo dei Titoli del debito USA, che attualmente rendono poco e sono molto più rischiosi che in passato (anche l’economia USA non sta attraversando un periodo roseo), cioè esattamente i 300miliardi di dollari di costi stimati per la ricostruzione (in realtà saranno molti di più), consentendo un fisiologico apprezzamento della moneta nazionale che avrebbe avuto l’effetto, importantissimo, di ABBASSARE I COSTI di ricostruzione. Infatti se il Giappone dovrà importare molte più risorse energetiche rispetto al passato (soprattutto petrolio) sarebbe meglio che lo facesse a prezzi inferiori, grazie ad una valuta più forte. In questo modo si sarebbero gettate le basi per un progetto di ricostruzione più credibile, ma soprattutto economicamente più sostenibile. E questo avrebbe creato anche i presupposti per un recupero fisiologico, magari più lento e graduale (ma sicuramente non artificiale, cioè indotto dalla moneta), dei mercati finanziari. Ho utilizzato volutamente il termine “apparentemente” proprio perché tale scelta si è rivelata impossibile. Chi sarebbe stato disposto infatti a sostenere, alle condizioni attuali, un terzo del debito statunitense ? La Cina ? La Russia ? Forse i marziani ? Un disinvestimento di tali proporzioni avrebbe creato un contraccolpo di dimensioni enormi sull’economia a stelle e strisce. Per questo motivo si è imposto al Giappone di utilizzare disinvoltamente il metodo americano: stampare nuova moneta, e continuare a sostenere il fardello del debito USA. D’altro canto anche una politica monetaria restrittiva (innalzamento dei tassi per favorire il risparmio interno e rendere più appetibile il debito giapponese) avrebbe avuto un impatto decisamente negativo sul deficit nipponico.
In conclusione
Qualcuno ha detto che si è scelto, in questo modo, di sostenere entrambe le economie (quella nipponica e quella americana) per il bene di tutti. A nostro avviso il Giappone pagherà cara questa imposizione. Innanzitutto in termini di costi enormi nella ricostruzione, che diventerà sì un’occasione, ma un’occasione di ingenti profitti (con uno yen debole) appannaggio dei soliti noti, non certo per i giapponesi. In secondo luogo in termini di inflazione (interna e importata): l’elevata quantità di moneta in circolazione scatenerà nel medio-lungo termine un processo inflattivo di proporzioni enormi. Quindi oltre al danno la beffa: il popolo giapponese si ritrova oggi povero, in un territorio malsano e semidistrutto, con la prospettiva di divenire sempre più povero ed indebitato fin sopra i capelli negli anni a venire.
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